Un ragazzo si brucia in spiaggia i piedi e la responsabilità è del Comune (Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza n. 7362/19; depositata il 15 marzo)

La Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 21 gennaio – 15 marzo 2019, n. 7362 ha deciso in merito ad un danno provocato ad un  minore che, sedendosi su un tratto di spiaggia, ha riportato ustioni causate da braci ancora ardenti, e nascoste sotto la sabbia, rimaste li dai falò accesi la sera precedente da ignoti.

I genitori, quali rappresentanti legali del minore, hanno agito, sia nei confronti del Comune, che della Capitaneria di Porto, assumendo la responsabilità di entrambi per i danni riportati dal figlio. Secondo la Corte di Cassazione la colpa è, da un punto di vista strutturale, una omissione. Essa consiste nel mancato rispetto di regole di prudenza, perizia, diligenza. Chi agisce con colpa omette di osservare regole di prudenza. Chi non si ferma allo stop, è in colpa perché ha omesso di osservare un segnale stradale. Tuttavia, altro è l’omesso rispetto di una regola cautelare, che, secondo una terminologia francese, è una omissione “nell’azione”, altro è l’omissione in senso stretto. Altrimenti, se non si chiarisce questa distinzione, ogni condotta attiva colposa rischia, come è avvenuto nel caso presente, di essere trattata come condotta omissiva, a cagione dell’omesso rispetto di una regola cautelare. In sostanza la condotta colposa è una condotta attiva caratterizzai dall’omesso rispetto di regole cautelari. Invece l’omissione propria è caratterizzata dall’omesso rispetto di un obbligo di agire a beneficio altrui (ad esempio, l’omissione di soccorso). E pertanto chi investe un passante non essendosi fermato allo stop non causa il danno per omissione, ma lo causa mediante una condotta attiva colposa, caratterizzata dall’omesso rispetto di regole cautelari. Tra le due figure (condotta attiva colposa, e condotta omissiva propria) v’è una certa differenza di disciplina, che equivale alla differenza tra l’agire e l’omettere.

Nel diritto penale, rispetto ad alcuni reati, quelli che si dicono causalmente orientati, ossia nei quali il disvalore più che sulla condotta è basato sull’evento, l’agire equivale all’omettere, nel senso che è la stessa cosa se l’evento (ad esempio la morte della vittima) è volontariamente causato agendo (sparare a taluno) anziché omettendo (volontariamente lasciar morire di fame il neonato) (art. 40 c.p.). Invece nel diritto civile l’omissione è spesso considerata meno grave dell’azione, e non equivale a quest’ultima. Il danno causato mediante omissione è risarcibile soltanto quando v’era un preciso obbligo di agire, e tale obbligo è stato violato (Cass. 12.3.2012, n. 3876). Si ritiene infatti comunemente che nessuno può essere genericamente tenuto a salvaguardare i diritti altrui, e dunque ad agire per impedire che subiscano danno. Un simile dovere generale di attivarsi a beneficio dei terzi sarebbe eccessivo e limiterebbe oltremodo la libertà dei singoli. Così, quale esempio di omissione in senso proprio può citarsi il caso di colui che, potendo impedire che un incendio attinga la proprietà del vicino, semplicemente chiamando i vigili del fuoco, non lo fa. In questo caso il danno che il vicino avrebbe potuto evitare non è l’esito di un’azione colposa (ossia caratterizzata da violazione di regole cautelari) ma di una omissione in senso proprio, per giudicare la illiceità della quale occorre stabilire se vi fosse un obbligo di agire a tutela del diritto altrui. Nella fattispecie presente dunque il danno di cui si discute non è causato da un’omissione in senso proprio, bensì da una condotta attiva (la difettosa pulizia dell’arenile) caratterizzata dall’omesso rispetto di una regola cautelare: quella di pulire adeguatamente l’arenile dai rifiuti. Con la conseguenza che non si può discutere della esistenza di un obbligo di agire a beneficio altrui, ma si deve discutere di violazione, nell’ambito di una condotta attiva, e non omissiva, delle regole cautelari proprie di quell’azione.

Il Comune, in base agli articoli 2,3,8 del D.P.R. n. 915/ 1982 ed alla legge regionale n. 25 D/ 1993, nonché al D.Lgs. 22/ 1997 ha l’obbligo della rimozione dei rifiuti sugli arenili che rientrano nei perimetri urbani, competendo alla Regione quello relativo ai perimetri extraurbani (vedi il precedente in termini Cass. 20731/ 2016). Si tratta allora della violazione di una cautela specifica, che non può dirsi, come ritiene il ricorrente inesigibile o rispetto alla quale il danno è dovuto al fortuito, in quanto la rimozione dei rifiuti non è stata adeguata, e non può ovviamente considerarsi imprevedibile la presenza di braci, anche se nascoste sotto sabbia, in un periodo in cui gli utenti dell’arenile sono soliti fare falò notturni. Invero la presenza delle braci è conseguenza del mancato rispetto della regola cautelare di pulire l’arenile, e perciò stesso non può considerarsi fatto imprevedibile ed inevitabile, posto che, pulendo adeguatamente, si sarebbe evitato il danno. Né il Comune può assumere di non essere tenuto a rimuovere le braci residue di un falò, avendo, in tal caso, bisogno di un’ apposita autorizzazione regionale, come se quella rimozione fosse uno scavo. La brace lasciata da chi ha acceso il falò è in realtà un rifiuto solido il cui smaltimento rientra negli obblighi del Comune, e la sua rimozione non presuppone attività di scavo o di bonifica, per le quali il Comune necessita di autorizzazione.

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