La prova nel caso di mancato rinvenimento dei beni dell’impresa ed il reato di bancarotta per distrazione.

(Corte di Cassazione, Sez. V Penale, sentenza n. 15280/19; depositata l’8 aprile)

La base della bancarotta per distrazione è il mancato rinvenimento da parte della Curatela fallimentare di beni e cespiti che, dalle scritture contabili dell’impresa, seppur incomplete, erano, senza ombra di dubbio, entrati a fare parte del patrimonio sociale.

L’amministratore della società deve fornire la prova sulla concreta destinazione avuta dai beni sociali e del loro ricavato, potendosi, in difetto, desumere ragionevolmente che dette risorse siano state sottratte alla garanzia dei creditori. La posizione di garanzia nei confronti dei creditori, che l’ordinamento giuridico pone in capo all’imprenditore, consegue la responsabilità del medesimo per la puntuale conservazione delle risorse e dei beni sociali. Ogni perdita o diminuzione del patrimonio non giustificata dal perseguimento degli scopi sociali, riduce la garanzia per i creditori con conseguente integrazione, in caso di fallimento, dell’evento giuridico proprio del delitto di bancarotta. La legge fallimentare, prosegue l’argomentare della Corte, pone l’accento, da un lato, sull’apporto conoscitivo proveniente dall’imprenditore fallito e, dall’altro lato, sull’obbligo allo stesso imposto di collaborare con gli organi della procedura. Infatti, alla responsabilità dell’imprenditore di conservare le garanzie patrimoniali verso i creditori si accompagna quello di verità, penalmente sanzionato, previsto dall’art. 87 comma 3, l. fall., a carico dell’imprenditore, interpellato dal curatore circa la destinazione dei beni dell’impresa. Per tali motivi, l’inversione dell’onore della prova – di regola posta a carico della pubblica accusa – è solo apparente alla luce dei precisi obblighi di fonte normativa che gravano sull’imprenditore ed in conseguenza dei quali, di fronte al mancato rinvenimento di beni aziendali e di prova della loro destinazione sulla base delle scritture contabili, l’imprenditore è onerato di rendicontare e dimostrare la loro sorte, dovendo in difetto accollarsi la responsabilità della loro distrazione.

Secondo la Corte si determina una sostanziale inversione dell’onore della prova rispetto ai consueti canoni, che pare aggravata dalla consolidata giurisprudenza che, non riconoscendo al fallimento la natura di evento in senso naturalistico, non richiede che lo stesso sia legato da nesso causale alla condotta distrattiva, né che sia oggetto di dolo del soggetto agente, con la conseguente, ed invero non infrequente, possibilità che le condotte distrattive risalgano a molti anni prima del fallimento. In tali casi l’imprenditore fallito si trova costretto ad assolvere ad un onere probatorio, penalmente sanzionato, sul quale il decorso del tempo incide inevitabilmente in modo assai gravoso e senza, peraltro, che tale aspetto possa trovare un qualche correttivo con la disciplina della prescrizione, atteso che, come noto, il dies a quo del decorso del termine prescrizionale è rappresentato dalla sentenza di fallimento e non dal momento in cui la condotta distrattiva è stata posta in essere.

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